Attendo che arrivi qualcosa o qualcuno per me; attendo il tempo opportuno e l'occasione per me. Ma intanto, cosa c'è in quell'attesa di me se non il mio non attendere? Infatti, una vera attesa suppone tensione, attenzione e proiezione in avanti, non certo un'infermità che fa giacere l'attesa in una situazione ormai stesa. L'attesa potrebbe anche suscitare contesa, contrasto e reazione, sì, ma sempre calibrate e misurate con il controllo dell'attesa. Attendere poi non è pretendere come giusto per me, perché ogni attesa può portarmi anche qualcosa di ingiusto per me, ma da accogliere in quanto superiore a me e parte dell'assoluto che la vita stessa, della quale io non sono padrone, per cui non posso da lei pretendere proprio nulla. Quando l'attesa supera queste condizioni e non accetta più il limite, ecco che appare all'orizzonte la disfatta dell'umanità: non di quella astratta e in generale, ma la mia, quella che sto vivendo qui e ora. Questa umanità di me viene straziata e deformata a immagine delle mie pretese, del mio io, in fin dei conti, che non vuole mai attendere, ma con violenza e senza guardare in faccia a nessuno vuole solo pretendere. Allora mi chiudo nella tenda dell'attendere e mi godo il mio io, con tutte le conseguenze.
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